Perché l’inflazione è tornata a fare paura? Cosa la spinge e cosa la frena.
Per vent’anni ci si è interrogati sulla scomparsa del carovita, spiegando che era dovuta a globalizzazione, tecnologia e demografia. Oggi però l’inflazione si ritrova ai massimi da quarant’anni. Ecco perché
Dov’è finita l’inflazione? Per un ventennio fior di economisti si sono interrogati sulla scomparsa del carovita, spiegandosi il fenomeno principalmente con tre elementi: globalizzazione, innovazione tecnologica e demografia. La globalizzazione e l’apertura dei mercati permettono infatti di fabbricare prodotti a basso costo in Paesi emergenti, l’innovazione tecnologica contribuisce alla disintermediazione di servizi (per esempio quelli bancari, assicurativi, oppure lo shopping) mantenendo prezzi bassi, l’invecchiamento della popolazione sarebbe deflattivo perché in teoria sono i giovani a consumare di più. Ulteriore fattore che frena i prezzi al consumo è il debito pubblico, in particolare dove è particolarmente alto come in Italia o in Giappone.
L’inflazione oggi però è tornata: all’improvviso e in grande stile, come aveva a suo tempo previsto un pugno di economisti. A dicembre negli Stati Uniti i prezzi al consumo sono saliti del 7% annuo, ai massimi dal lontano 1982, mentre in Eurozona hanno toccato il 5%. Cosa è accaduto? Quali nuove potenti forze hanno alimentato il carovita vincendo il braccio di ferro con globalizzazione, tecnologia e demografia? E per quale motivo le politiche monetarie ultraespansive varate dalle banche centrali per far fronte alla pandemia hanno prodotto questa fiammata inflattiva, quando in precedenti occasioni come la grande crisi del 2008 non era accaduto?
Aumenta la massa monetaria disponibile
«La prima considerazione da fare è che le teorie di Milton Friedman, date per spacciate da molti commentatori, sono oggi più vive che mai - spiega Alessandro Tentori, Chief Investment Officer di AXA IM Italia - . Questo grande economista premio Nobel aveva sempre evidenziato la relazione tra inflazione e crescita della massa monetaria (ovvero depositi bancari fino a due anni e banconote), ma in molti si erano convinti che tale legame negli ultimi decenni si fosse molto affievolito».
C’è una spiegazione logica, continua Tentori: in passato Fed e Bce avevano usato il sistema bancario per trasmettere la loro politica monetaria ultraespansiva, anche perché dopo il 2008 gli istituti di credito dovevano ricapitalizzarsi. Le banche, in altre parole, avevano rappresentato la cinghia di trasmissione della politica monetaria tra banche centrali e cittadini.
«Poi è arrivato il Covid e nel 2020 per la prima volta la Fed ha varato misure ultraespansive di politica monetaria e fiscale senza il filtro degli istituti di credito: i soldi sono arrivati direttamente nelle tasche dei cittadini, venendo spesi - spiega l’economista di AXA IM - . Ecco perché l’inflazione oggi sale: aumenta la massa monetaria disponibile ai consumatori, proprio come teorizzava Friedman, mentre in passato questo legame era stato attenuato dall’intermediazione degli istituti di credito, ai quali arrivavano le risorse delle banche centrali».
Fonte: Federal Reserve
Colli di bottiglia, problemi nelle catene d’approvvigionamento e rientro in patria della produzione
Nell’era Covid, poi, sono comparsi altri potenti motori in grado di trainare il carovita verso nuovi record. Il primo è lo sconvolgimento delle catene di fornitura globali: con un’interminabile serie di lockdown asincroni in tutto il mondo, sono state colpite le lunghe e fragili supply chain costruite nel nome dell’efficienza, del basso costo e della filosofia “just-in-time” tra Paesi emergenti dove il lavoro costa poco e Stati sviluppati dove si consuma molto.
Magazzini e stabilimenti produttivi, un tempo delocalizzati, sono in parte tornati nei Paesi ricchi, in un’accelerazione dell’onshoring che ovviamente porta inflazione, perché il costo del lavoro degli Stati Uniti o dell’Europa è molto superiore a quello del Vietnam o dell’India. «E’ inoltre probabile che in futuro gli Stati si preoccupino di garantire la stabilità di alcuni settori strategici come energia, trasporti, digitale, comunicazioni, chip, fibra ottica, metalli rari o canali di comunicazione di massa - sottolinea Tentori - . La forte domanda per questi asset strategici può essere inflattiva, perché riporta a casa le produzioni da Paesi asiatici o sudamericani dove il lavoro è a basso costo».
Gli effetti della transizione green
C’è poi il tema della transizione verde, che a sua volta contribuirà alle tensioni sui prezzi. «Questo perché stiamo già assistendo alla corsa da parte dei Paesi ricchi ad accaparrarsi materie prime strategiche per un’economia sostenibile - continua l’economista di AXA IM - : metalli rari come il litio, il cobalto e il nichel, in buona parte controllati dalla Cina e da alcuni Stati africani. In un futuro sostenibile queste commodities, indispensabili per costruire accumulatori, saranno più importanti delle tradizionali fonti fossili, e per accaparrarsele i Paesi ricchi non baderanno a spese così come stanno facendo oggi con i vaccini. Tutto questo ha un effetto inflattivo. Senza però dimenticare che prima del completamento della transizione green le fonti fossili come petrolio e gas continueranno ad avere un forte peso sul carovita».
Anche il fattore demografico andrebbe osservato da una prospettiva nuova, conclude Tentori. «Uno studio della Banca delle Transazioni Internazionali (BIS) di qualche anno fa dimostrava come non sia sempre vero che l’invecchiamento della popolazione riduca l’inflazione: gli anziani consumano un po’ meno, d’accordo, ma non producono. Perciò quando la popolazione invecchia in fretta viene prodotto troppo poco per soddisfare la domanda: con il risultato appunto di generare inflazione, oppure di essere costretti ad acquistare dall’estero».
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