I mille volti della sharing economy (e come sta cambiando la nostra società)
L’utilizzo al posto della proprietà, ma anche consumi più personalizzati e sostenibili nel nome della socializzazione: ecco come l’economia della condivisione ha sconvolto tradizionali modelli di business, portando al successo società come Airbnb e Uber.
E’ uno dei più importanti global trends dell’ultimo decennio, un simbolo di “distruzione creativa” che ha cambiato volto a economia e società. La sharing economy (o collaborative economy) ha ribaltato come un guanto i tradizionali modelli di business generando un giro d’affari esplosivo: dai 15 miliardi di dollari del 2014 ai 355 miliardi stimati per il 2025 da Statista in un recente report.
Ma che cos’è esattamente la sharing economy? La definizione ufficiale adottata dall’Unione europea parla di «un modello di business le cui attività sono facilitate da piattaforme che creano un marketplace aperto all’uso temporaneo di prodotti o servizi, spesso forniti da privati». Gli attori principali sono due: i fornitori di prodotti o servizi (privati o professionisti) e gli intermediari che connettono domanda e offerta attraverso una piattaforma online.
Digitalizzazione, ambiente, razionalizzazione delle risorse, e voglia di nuove esperienze di consumo spingono la sharing economy
Di fatto, quindi, la sharing economy è un modello economico peer-to-peer che secondo un’approfondita ricerca di PwC è legato a quattro driver principali: la digitalizzazione, la necessità di utilizzare le risorse in modo più efficiente e razionale (a partire per esempio dalle automobili), l’attenzione all’ambiente, ma soprattutto una nuova sensibilità dei consumatori, che privilegiano l’utilizzo alla proprietà e chiedono nuove esperienze all’insegna della personalizzazione e della socializzazione. Nella sharing economy gli utilizzatori condividono un prodotto o servizio, su richiesta e attraverso una piattaforma online, sulla base della fiducia e con una particolare attenzione sia alla sostenibilità che all’interazione sociale.
Ma l’enorme successo di colossi della sharing economy come Airbnb o Uber si deve anche alle economie di scala digitali, che permettono di espandersi molto in fretta aggredendo mercati locali con costi fissi inferiori a quelli dei competitor più tradizionali. Questo ha permesso ad Airbnb di quotarsi con successo a Wall Street lo scorso dicembre, nel bel mezzo della pandemia, raggiungendo una capitalizzazione di quasi 120 miliardi di dollari (circa dieci volte quella per esempio di Renault), mentre Uber viaggia poco sotto i 110 miliardi. E i due simboli della sharing economy rappresentano la punta dell’iceberg di un modello economico che soltanto in Europa, secondo alcune stime del Centre for Economic Policy Research, conta circa 700 piattaforme online e dà lavoro a 400mila addetti.
I settori principali
Ma vediamo meglio quali sono i quattro principali settori della sharing economy.
1. Mobilità.
Nel variegato mondo del car sharing c’è il ride sharing di Uber, Lyft e della loro concorrente cinese Didi Chuxing, ma anche il car pooling in cui troneggia la francese BlaBlaCar, colosso francese che conta 80 milioni di utenti in tutto il mondo disposti a viaggiare con sconosciuti purché socievoli e chiacchieroni. Senza contare la nicchia del parking space rentals (per esempio con la britannica JustPark) o quella del car rentals on-demand (come la statunitense Zipcar, acquisita da Avis): un mondo di servizi in cui si stanno lanciando anche gli stessi costruttori di auto, a partire da Bmw e Daimler (con ShareNow).
2. Turismo.
Questo è il regno del “monetised home sharing” di Airbnb, ma anche di servizi analoghi come Couchsurfing in cui l’alloggio viene condiviso gratuitamente. Una variante è quella in cui ci si scambia la casa attraverso piattaforme come HomeExchange.com. Poi esistono altri servizi come gli spazi di co-working o quelli in cui alcuni host offrono non l’alloggio ma il vitto (pranzi o cene).
3. Entertainment.
La vera rivoluzione per l’industria dell’intrattenimento, amplificata dai lockdown legati alla pandemia, è l’online streaming. Ovvero la modalità di fruizione di musica o video in cui il contenuto non viene scaricato, ma solo condiviso online. Qui i grandi nomi sono Spotify, Deezer, Apple Music e sul fronte video YouTube, ma anche protagonisti dell’on-demand streaming come Netflix, Disney+, Apple tv e Amazon Prime Video.
4. Finanza.
E’ un altro settore chiave nella sharing economy, soprattutto sul versante fintech visto il crescente successo del crowdfunding come mezzo di finanziamento, in particolare per le startup (pensiamo per esempio a Kickstarter). C’è poi il social lending o peer-to-peer lending: simile a una banca, ma in cui l’investimento è intermediato da una piattaforma i cui costi sono molto inferiori a quelli di un istituto di credito, rendendo le operazioni convenienti sia per i creditori che per i debitori (due esempi sono Lending Club o Zopa). Una variante curiosa è quella della “crowdcreation”, in cui gli utenti contribiscono con le loro idee a risolvere problemi complessi o a sviluppare un prodotto (come la piattaforma InnoCentive).
Esistono poi altre nicchie in cui “l’economia collaborativa” ha messo radici, dall’alimentare alla moda, dal noleggio di abiti all’energia fino alle piattaforme per connettere domanda e offerta di lavoro.
Fonte: Ufficio Studi Mastercard
Parte del mondo della sharing economy ha però enormi problemi di regolamentazione, perché in alcuni casi rappresenta una “zona grigia” economica e fiscale, ma anche una forma di concorrenza sleale alle imprese tradizionali. Prendiamo per esempio Uber, da anni nel mirino di tassisti che a fronte di un servizio simile devono spendere cifre importanti per le loro licenze. Oppure i privati che “vendono” –attraverso piattaforme online cene a casa loro, a prezzi ovviamente inferiori a quelli dei ristoranti perché non hanno costi di affitto del locale né licenze o personale da pagare. Più in generale, il dubbio è che alcuni settori della sharing economy rischino di rimpiazzare i tradizionali lavori sicuri con impieghi part-time, sottopagati e precari, oltre che talvolta irregolari sotto il profilo fiscale. Un lato oscuro da non trascurare, per l’economia della condivisione.
Fonte: Ufficio Studi Mastercard
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