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Perché sui social network dilagano teorie complottiste e fake news


Si chiamano “ecochambers” e “filter bubbles”: sono i meccanismi con i quali Facebook e le altre reti sociali inseriscono i propri utenti in community piene di persone simili. “Bolle” nelle quali scompaiono dibattito e contraddittorio. E in cui spesso si moltiplicano le fake news. Ecco come funzionano i social visti da dentro.

Le fake news si diffondono a una velocità sei volte superiore a quella delle notizie reali, rivelava una celebre ricerca del MIT condotta qualche anno fa su Twitter e pubblicata sul giornale Science. In parte il fenomeno è legato al grande appeal delle bufale: create ad arte per suscitare interesse e curiosità, hanno gioco più facile nell’essere viralizzate rispetto alla realtà. Ma c’è di più. Nei social network, le fake news riescono a raggiungere i loro bersagli con millimetrica precisione. Non sparano nel mucchio, non disperdono le loro forze tra gli scettici, ma scelgono le loro vittime proprio tra i “creduloni” del web. Questo grazie a due famigerati meccanismi che dominano nei social network: “ecochambers” e “filter bubbles”. Vediamo come funzionano.

Nelle “ecochambers” un singolo utente sceglie di cercare informazioni coincidenti con il suo punto di vista, di fatto autosegregandosi in una community che conferma la sua visione del mondo. Le “filter bubbles” (il cui meccanismo è stato svelato da un saggio del 2009) sono invece i sistemi di filtraggio degli algoritmi del social, che inseriscono un utente in una “bolla” in modo automatico, senza una sua scelta esplicita: è il caso per esempio di Facebook, che suggerisce notizie o gruppi non per rilevanza ma per affinità, portando ogni singolo utente a credere che tutti la pensino come lui.

Meccanismi dei social per aumentare engagement e... profitti

I grandi social media hanno messo a punto questi meccanismi per un motivo semplice: aumentare l’engagement, l’attenzione e il tempo speso dagli utenti (e di conseguenza i loro enormi profitti). Ma le conseguenze sono pesanti. I meccanismi di comunicazione che dominano nelle reti sociali contribuiscono ad aumentare la disinformazione, che spesso finisce con l’accompagnarsi ad ansia e depressione. Che siano “ecochambers” o “filter bubbles”, il risultato finale non cambia: il singolo utente non trova sui social contraddittorio e dibattito, ma solo conferme della sua visione del mondo, accompagnate dai “like” e dai feedback positivi che abbondano sempre nelle interazioni sociali online.

In altre parole, le teorie complottiste e le fake news scorrazzano sulle “reti sociali” scegliendo le proprie vittime con l’implacabile precisione di algoritmi in grado di connettere un certo contenuto con gli utenti più portati ad apprezzarlo e a condividerlo. Bastano un po’ di “like” sull’onda dell’emotività per viralizzare le bufale più assurde, incoerenti e ansiogene proprio nelle “bolle” e nelle “camere dell’eco” popolate da chi è pronto ad accogliere le più strampalate teorie complottistiche.

Fonte: Stime Statista

Le vittime delle fake news

La conferma è arrivata di recente da una corposa ricerca scientifica condotta da otto studiosi di varie università mondiali su oltre ottomila soggetti (“Beliefs in Conspiracy Theories and Misinformation About COVID-19”, pubblicata ad aprile su “In Psychology”). Secondo l’analisi, i più voraci utenti di digital media corrono molti più rischi di cadere vittima di fake news e teorie cospirazioniste, rispetto ai fruitori di media più tradizionali come radio, tv o giornali (e loro siti internet).

Lo studio conferma come rumors, teorie cospirazioniste e “verità alternative” tendano in particolare a prosperare in un contesto di paura e sfiducia, come quello della pandemia. Il coronavirus ha rappresentato in questo senso una “tempesta perfetta”, in grado di rendere virali teorie assurde come quella di un virus provocato dalla tecnologia 5G o creato da Bill Gates per dominare l’umanità attraverso vaccinazioni e sorveglianza coatta.

Secondo l’analisi, le vittime predestinate delle bufale tendono a essere persone poco istruite, giovani e donne. Ma ci sono anche rilevanti differenze geografiche. L’Europa occidentale e centrale in generale ha mostrato buoni livelli di resistenza alle fake news, perché è dotata di «istituzioni stabili e riconosciute che danno modo ai cittadini di ottenere informazioni indipendenti, smascherando i tentativi di manipolazione». Esempi classici di nazioni di questo tipo sono Svizzera e Belgio, ma anche (pur se in maniera più sfumata) Gran Bretagna o Canada.

Gli Stati Uniti invece rappresentano un mondo a parte, rivela la ricerca di “In Psychology”, che li definisce appunto un “caso unico”. «Hanno un contesto sociale, politico e mediatico completamente polarizzato - spiegano gli studiosi - che ha creato un terreno fertile per la disinformazione. Negli Stati Uniti la comunicazione politica è infatti caratterizzata da una retorica populista, anche da parte di molti media, con la conseguenza di un calo della fiducia nell’informazione tradizionale». Se consideriamo i Paesi sviluppati, le teorie cospirazioniste più assurde hanno dilagato proprio oltreoceano, nella patria di Big Tech e dei colossi dei social: gli stessi che fanno profitti astronomici anche grazie agli algoritmi di “ecochambers” e “filter bubbles”.

 

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