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Vivremo in case fatte di funghi e alghe: zoom sui biomateriali del futuro


Dall’architettura all’edilizia, dal design alla moda, il futuro sarà sempre più dominato da biomateriali “circolari”: il micelio dei funghi per costruire case e realizzare vestiti, i capelli recuperati nei saloni delle parrucchiere per fabbricare maglioni, le alghe per le piastrelle, i gusci d’uova per i bicchieri, i sofisticati materiali nanocompositi per l’edilizia.

 

Il micelio

Tra i biomateriali che vanno per la maggiore il micelio ha un posto d’onore: è l’apparato vegetativo dei funghi, una specie di “aggregante naturale” che permette di ottenere nuovi materiali dagli scarti organici contenenti cellulosa (il polisaccaride con il quale i funghi si alimentano). Una delle realtà di spicco del settore in ambito europeo è l’italiana Mogu (“fungo” in cinese), che grazie a una tecnologia basata sul micelio trasforma i residui agricoli in elementi di design d’interni o di edilizia sostenibile. Di recente Mogu si è lanciata anche nel sustainable fashion, grazie a una partnership con la casa di moda Balenciaga presentata all’ultima Paris Fashion Week.

 

Il mattone ‘sostenibile’

Nel settore edile il micelio va per la maggiore. In particolare per l’isolamento termico, in combinazione con il legno perché l’apparato vegetativo dei funghi cresce all’interno delle pareti lignee “sigillando” tutte le fessure in modo naturale. Non solo. Il progetto Fungar (Fungal Architectures), finanziato dalla Ue con quasi tre milioni di euro, punta a produrre veri e propri mattoni mescolando il micelio con paglia, scarti del mais e rifiuti agricoli vari. Il risultato è un materiale solido, leggero e soprattutto organico.

Oltre al micelio, come isolante termico e acustico esiste poi l’altrettanto naturale lana di pecora, lavorata in modo da diventare idrorepellente e assorbire l’umidità. Ottima anche per i cappotti termici degli edifici, oltre che per quelli degli esseri umani. Ma sul fronte isolamento funziona bene anche la canapa, che può essere combinata con la calce per realizzare muri divisori o intonaco. Senza dimenticare il sughero, con le sue proprietà traspiranti (quindi in grado di eliminare umidità e condensa).

 

La seconda vita dei rifiuti edili

Il recupero dei rifiuti post demolizione non è una novità. Già dai tempi dell’antica Roma i mattoni frantumati venivano trasformati in polvere e mescolati a una base di calce: ne nasceva il cosiddetto “cocciopesto”, uno speciale intonaco usato per impermeabilizzare acquedotti, cisterne e pareti. La tecnologia moderna ha aperto decine di nuove strade per riutilizzare gli scarti. La startup fiorentina Catalyst, attiva nel riciclo di edifici esistenti in disuso, per esempio, ha creato il mattone Ri-Block mediante la pressatura a freddo dei rifiuti legati alla demolizione di edifici.

 

Caffè e gusci d’uovo

Anche sul design d’interni le idee non mancano. In Gran Bretagna Atticus Durnel crea oggetti d’arredo (lampade, tavolini, piastrelle) utilizzando fondi di caffè usati, aggregati con bioleganti, minerali e una resina a base vegetale. Il materiale ottenuto si chiama “That’s caffeine”: resiste alle alte temperature e all’acqua, ma è anche leggero.

La giovane designer indiana Midushi Kochhar, invece, fabbrica piatti, posate e bicchieri compostabili utilizzando una bioceramica derivata dai gusci d’uovo gettati da ristoranti e bar.

 

La casa circolare alla Dutch Design Week

Sembra una casa ma in realtà è un catalogo a forma di casa, come spiegano con la massima serietà i fondatori dello studio di ecodesign Biobased Creations. Sì perché la loro installazione “The Exploded View Beyond Building”, edificio assemblabile in ventiquattr’ore esposto alla Dutch Design Week di Eindhoven, in Olanda, è costruita con oltre cento diversi biomateriali. Tutto è circolare, dalle tazzine alla toilette, dai tavoli alle piastrelle, dalla biancheria ai mobili. Fabbricati partendo da fibre vegetali, gusci d’uova, funghi, alghe, paglia, batteri. Non mancano nemmeno i liquami, diventati delle deliziose tazze variopinte, solide e ovviamente inodori. Segni particolari: si tratta di biomateriali in commercio, disponibili a tutti.

 

Vestirsi con ortica, fibra di banana e d’arancia

Concludiamo con qualche esempio di bioabbigliamento. Due imprenditrici catanesi hanno dato vita alla startup siciliana Orange Fiber, che produce tessuti finissimi partendo dagli scarti della lavorazione degli agrumi. Sono morbidi, impalpabili, simili alla seta, così come i luminosissimi filati a base di ortica della startup svizzera Swicofil. Mentre dal fusto di banana si riesce a ottenere un tessuto resistente e assorbente, di ottima qualità secondo gli addetti ai lavori. Di più. In Olanda lo studio Zsofia Kollar realizza morbidi maglioni utilizzando i capelli raccolti nei negozi delle parrucchiere di Amsterdam: solo in Europa ogni anno ne vengono buttati 72 milioni di chili, che potrebbero diventare preziosi biomateriali (anche perché ricchi di proteine, come la cheratina).

L’obiettivo numero uno dei biotessuti è ambizioso: cercare di ridurre il peso di poliestere, nylon e altri filati derivati dal petrolio. Facili ed economici da produrre, certo, ma che secondo la Ellen MacArthur Foundation inquinano per l’equivalente di 330 milioni di barili di petrolio l’anno. Senza contare gli effetti deleteri su mari e oceani, ormai pieni di microplastiche che per un terzo derivano proprio da tessuti sintetici. E che attraverso la catena alimentare finiscono nel nostro piatto.

 

Fonte: Technavio, dicembre 2021

 

Un mercato in forte crescita

Si stima che il mercato dei biomateriali, cresciuto del 5,3% nel 2022, possa crescere in media del 6% all’anno fino al 2026 secondo un report di Technavio. Dietro a questo boom ci sono i designer più innovativi di questi anni, giovani che non temono nuove sfide, che creano i loro laboratori e sperimentano soluzioni, in collaborazione con chimici ed altri esperti, per autoprodurre i nuovi materiali con i quali poi creano o trasformano oggetti o edifici.

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