Treasury: è giunto il momento di comprare?
A che livello può ancora salire il rendimento del Treasury? Abbiamo già visto i massimi? Che fine ha fatto il “new normal”, insistentemente sbandierato come il nuovo paradigma di allocazione sui bond? Le settimane scorse sono state dense di appuntamenti per il sottoscritto, tra il roadshow nazionale di AXA IM e il Salone del Risparmio. Nonostante la pletora di argomenti e temi da trattare, alla fine le domande e l’interesse degli investitori convergono sempre e solo sul Treasury. Non c’è da stupirsi, visto lo status di benchmark globale di questo strumento e l’influenza che esercita sulle valutazioni di tutte le classi di attivo.
Tre sono le variabili chiave sulle quali ragionare e da cui trarre delle conclusioni sul futuro del Treasury decennale: Il tasso di interesse naturale, le aspettative di inflazione e il premio a termine. Vediamo in breve come valutarle. Chiamato in gergo “r-star”, il tasso naturale è quel tasso di interesse che in assenza di shock esogeni mette d’accordo risparmio e investimenti. Ottimo, mi dirà l’attento lettore, su quale mercato lo possiamo osservare. Non possiamo, non è scambiato. Possiamo invece stimarlo, assumendoci il solito grado di incertezza implicato dai modelli socio-economici. Nel lungo periodo questo tasso di interesse deve essere consistente con la produttività di una economia e quindi con il potenziale di crescita reale. Sulla base dei dati, r-star per gli Stati Uniti potrebbe stare tra 0.75% e 1.25%, con una forchetta di incertezza che va da 0.25% a 1.75% (valore implicato dalla crescita potenziale media dei prossimi dieci anni).
Ma passiamo alle aspettative di inflazione, tema tanto scottante quanto attuale. Un indicatore usato frequentemente è lo swap sull’inflazione USA a 5 anni tra 5 anni (“5y 5y forward”), attualmente a 2.65% e comunque sotto quel 2.9% riscontrato in media nel decennio 2002/2012, cioè prima del “new normal” per intenderci. Ovviamente, si apre qui una discussione sulle componenti inflazionistiche di lungo periodo, discussione che spazia dalla demografia alla globalizzazione. Abbiamo già trattato di questa tematica in una precedente newsletter, ipotizzando uno scenario di inflazione più alta dell’obbiettivo del 2% per un periodo di tempo più lungo di quanto le banche centrali vogliano tollerare. Farei anche notare che non mi addentro nel tema del premio a rischio di inflazione, ovvero l’extra yield che un investitore richiede per essere indifferente rispetto al rischio di vedere l’inflazione “fuori controllo”.
La terza variabile da tenere in considerazione è il premio a termine. Essenzialmente, si tratta del rendimento incrementale che un investitore richiede per allungare l’orizzonte temporale del suo investimento obbligazionario. Si tratta quindi una variabile che coniuga il tema della duration con quello dell’incertezza sulla traiettoria di politica monetaria e in ultima analisi con la volatilità del Treasury. Durante il decennio antecedente il QE della Federal Reserve, il premio a termine era in media 90 punti base, cioè il doppio del valore attuale. Non sottovalutiamo l’effetto di reflazione che il processo di Quantitative Tightening potrebbe innescare sui rendimenti di lungo periodo.
Concludo con l’aritmetica, arrotondando per semplificare: Il tasso naturale (0.75%) più le aspettative di inflazione (2.5%) più il premio a termine (0.75%) uguale rendimento Treasury decennale a 4%. Anche tenendo conto dei canonici margini di errore statistico, potrebbe non essere ancora arrivato il momento di comprare Treasury (valore attuale 2.9%). In termini di politica monetaria, un Treasury al 4% equivale a un tasso Fed Funds di 2.6%, tenendo conto che negli ultimi 30 anni la differenza tra decennale e tasso Fed Funds è stata in media 140 punti base. Di fatto questa stima non è del tutto inconsistente con un tasso Fed Funds a 2.7% prezzato dai mercati tra cinque anni, piuttosto che con il “dot plot” di marzo 2022 che vedeva il Fed Funds a 2.5% nel lungo periodo.
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