Inflazione: misuriamo le aspettative
La variazione annua dell’indice dei prezzi al consumo statunitense è stata di 6.8% a novembre. Rispetto a quel 2% previsto dagli economisti di Wall Street per l’anno in corso ne abbiamo fatta di strada: la media del 2021 è ormai al 4.5%. In quest'articolo vorrei soffermarmi brevemente sul ruolo delle aspettative e su come misurarle. La prima parte – il ruolo delle aspettative di inflazione – è relativamente semplice. Basta aprire un qualsiasi testo di politica monetaria (suggerisco il Woodford), per essere immediatamente confrontati con il concetto di “expectation”. In poche parole, se tutti si aspettano che i prezzi del latte salgano, allora tutti comprerebbero il latte oggi invece di comprarlo domani. Anticipando le scelte di consumo, emetterebbero un forte segnale per i prezzi. È vero anche il contrario come sappiamo dalla storia economica del Giappone: la deflazione è innanzitutto frutto delle aspettative di prezzi in discesa, aspettative che alimentano la discesa dei prezzi che a sua volta alimenta le aspettative per un ulteriore posticipazione dei piani di consumo. Non vi tedio con la stabilità delle aspettative, tema peraltro estremamente interessante, ma che ci richiamerebbe forzatamente all’analisi qualitativa dei sistemi differenziali.
La misurazione delle aspettative è un tema spinoso, sul quale non vi è una view unanime, né a livello di banche centrali né di economisti o investitori. Focalizzandoci sugli Stati Uniti, potremmo guardare agli swap indicizzati all’inflazione: Per esempio, l’inflazione annua prezzata dal mercato tra un anno (il CPI a un anno, un anno forward per intenderci) vale attualmente 2.9%, mentre l’inflazione a partire da due anni nel futuro è prezzata a 2.75%. Purtroppo ci sono tre complicazioni qui:
- Si tratta delle aspettative sulla dinamica di un indice di prezzi di una ristretta cerchia di dealers e di investitori finali, non certo delle aspettative aggregate di inflazione della popolazione statunitense;
- Come gli strumenti di tasso nominali, così anche gli strumenti indicizzati all’inflazione comprendono un premio a rischio, che riflette l’incertezza sull’inflazione futura;
- La Fed non basa le proprie scelte di politica monetaria sul CPI ma sul deflatore PCE. Se filtrassimo le aspettative basate sugli swap indicizzati al CPI statunitense dal premio a rischio (45 punti base) e dal differenziale tra CPI e PCE (30 punti base), allora noteremmo come il mercato si attende un’inflazione esattamente sul target del 2% per il 2023.
Concludo con un rapido passaggio sui sondaggi, strumento essenziale per armonizzare le aspettative di mercato sul CPI con quelle più generiche della popolazione sull’inflazione. Dei tanti sondaggi che vengono condotti, sono due quelli che godono a mio avviso di una ottima reputazione: il Survey of Professional Forecasters e il sondaggio della University of Michigan. Per quanto riguarda le aspettative di lungo periodo – diciamo a partire da cinque anni – entrambi i sondaggi segnalano una inflazione attesa di 2.75%-3%, in netto rialzo da una aspettativa di 2%-2.5% solamente 12 mesi fa. Faccio anche notare che il tema delle aspettative basate sui sondaggi rispetto a quelle basate sugli strumenti finanziari è molto sentito non solo dalla Fed, ma anche dalla BCE che in passato condusse (grazie a Benoit Coeure) uno studio dettagliato delle aspettative dei consumatori per meglio comprendere l’inflazione e il comportamento delle famiglie.
Temo che le aspettative di inflazione sottostimino il rischio di una inflazione meno “transitoria”, cioè legata più a dinamiche strutturali e meno a effetti di base piuttosto che a colli di bottiglia temporanei. Forse dovremmo abituarci a vedere il CPI stabilmente sopra il 2%, così come ci eravamo quasi abituati a vederlo sotto il 2% dopo la Grande Crisi Finanziaria.
Ogni martedì alle ore 11.00 Alessandro Tentori, CIO di AXA IM Italia, vi invita a riflettere insieme sui mercati e su possibili soluzioni di politica economica. Per l'iscrizione, cliccare qui.
Disclaimer