Debito, Green Tech e rivoluzione digitale in un’ottica diversa dal solito
Debito
Sempre più analisti stanno suonando l’allarme sul debito. Il Congressional Budget Office ha stigmatizzato “senza precedenti” la crescita del debito degli Stati Uniti – che viaggia ormai verso i 35 trilioni di dollari. Nondimeno, oggi i governi sembrano avere adottato un nuovo paradigma in contrasto con quello precedente dell’ “austerity”. Dobbiamo preoccuparci del debito?
Per Yanis Varufakis, economista e politico, ex ministro delle Finanze della Grecia negli anni della crisi del debito sovrano, non è il debito che deve preoccuparci. Stati e banche hanno sempre creato debito e moneta. Quel che piuttosto dovrebbe preoccuparci è che cosa vien fatto con questa massa di denaro a disposizione, come la si utilizza.
“La vera questione è cosa accade a tutto questo denaro che viene creato dal nulla dal settore privato e dai governi”, spiega Varufakis. “Stiamo investendo questo denaro o lo stiamo sprecando? Viene investito nelle cose di cui abbiamo bisogno come società e come specie – soprattutto oggi con l’emergenza climatica – o sta piuttosto creando una spirale d’inflazione, inflazione sugli asset e ineguaglianze?” A suo avviso, potremmo investire meglio il denaro che stiamo creando.
Sulla stessa linea, Alessandro Tentori, CIO Europe di AXA IM, argomenta che un certo tipo di debito può essere sostenibile, a condizione però che si possa crescere abbastanza velocemente. Infatti, se in passato bisognava rispettare certi parametri di sostenibilità, oggi questo appare superato. “Se questo status va avanti in modo sostenibile, senza sprechi, se questo debito è investito per creare ricchezza, è un debito buono, ma sono d’accordo che il denaro va investito e se non viene investito è debito cattivo”.
Inflazione
Sebbene i dati macro mostrino un’inflazione complessivamente in calo, l’inflazione “sticky” (appiccicosa) è ancora qui e il raggiungimento del target del 2% delle banche centrali potrebbe non avvenire nei prossimi due anni. Stiamo dunque andando verso un regime inflazionistico simile a quello degli anni Settanta e verso un regime di tassi d’interesse elevati simile a quello degli anni Novanta?
Varufakis lo esclude nettamente. L’unica cosa in comune sono state le crisi energetiche, che allora come oggi hanno scatenato l’inflazione. Ma le similitudini finiscono qui. “Nel 1970 la principale ragione dell’esplosione dell’inflazione era che eravamo parte dell’area dollaro, del sistema monetario di Bretton Woods”, che poi fu annichilito dalla nuova politica economica del presidente Richard Nixon, nel 1971. L’economista greco ricorda che John Connally, ministro del Tesoro di Nixon quando gli Stati Uniti decisero l’esclusione dall’area dollaro, disse alle sue allibite controparti europee: “il dollaro è la nostra valuta, ma è il vostro problema”. Gli altri paesi si trovarono in una spirale di debito.
“Ma negli anni Settanta avevamo sindacati forti, negoziazioni contrattuali collettive che spesso riuscivano a far salire i salari sopra il tasso d’inflazione. Nulla di questo avviene oggi”, avverte Varufakis. Al contrario, i sindacati sono stati completamente ammansiti, i salari reali sono in caduta libera, e “la ragione per cui abbiamo l’inflazione non ha nulla a che fare con il debito o il deficit ma con il fatto che è stata creata molta ricchezza, soprattutto dal 2009 al 2022”. La pandemia ha poi spinto i governi a immettere denaro nell’economia usando la politica fiscale, completamente dimenticando l’austerity in un momento in cui avevamo un problema di forniture. Questo ha fatto schizzare i prezzi.
Il vero problema quindi non è l’inflazione, secondo Varufakis, ma le supply chain, e non si risolve con l’austerità. Questa situazione, secondo l’ex ministro delle Finanze di Atene, è dovuta ad anni di mancati investimenti. Noi europei “abbiamo perso il treno dieci anni fa, il treno è finito prima in Cina e – negli ultimi due anni – in America”. Non ci resta che rincorrere cinesi e americani e l’unico modo è fare investimenti.
Transizione energetica
Dove investire? Per esempio, nel settore del Green-Tech. Nonostante in Europa si parli tanto di transizione Green, secondo Varufakis manca un piano d’investimento. Per esempio, nel Green Tech l’Europa è indietro rispetto alla Cina. Bisognerebbe avere un piano comune per i prossimi dieci anni, “ma non stiamo facendo niente”. Ci limitiamo a “seguire gli altri”, commenta l’economista. Serve un nuovo slancio per colmare un gap d’investimento lungo quindici anni.
C’è poi molta incertezza su quale sarà domani la tecnologia dominante. Per esempio, non possiamo essere certi che investimenti significativi nella tecnolgia dei veicoli elettrici possano eventualmente ripagare chi li fa. Come si riflette tutto questo sui mercati? “Sui mercati vedo delle incertezze dovute ai processi tecnologici che oggi vanno avanti a rilento”, commenta Tentori. “I governi chiedono investimenti per progetti particolari, ma ci sono tante tecnologie che si fanno concorrenza l’una con l’altra. Come sapere quale sarà tra vent’anni la tecnologia vincente? Quella che ricompenserà le tasche degli investitori?”
L’incertezza è fondamentale perché nella storia dei cambiamenti tecnologici ci sono state tante tecnologie che si pensava sarebbero diventate dominanti. Non è scontato sapere quale sarà la tecnologia del futuro e c’è il rischio di puntare tutto, in termini d’investimento, su una tecnologia che poi si rivelerà sbagliata.
“Per un gestore si tratta di un processo complicato, quello di capire quale sarà l’azienda su cui puntare, quella che creerà transizione, o qual’è il valore dell’intelligenza artificiale (IA)”, spiega Tentori. Quindi bisogna diversificare. “Oggi è molto complicato creare portafogli perché ci sono aziende che non sono ancora in Borsa – aggiunge – ma che potrebbero entrarvi tra dieci o quindici anni e che magari utilizzano esattamente la tecnologia che oggi cominciano a sviluppare”.
Rivoluzione digitale
In genere quando si parla di IA il dibatto si concentra su quali effetti avrà sulla produttività, su come potrebbe aumentare la crescita potenziale, facilitando la gestione del debito. Ma per i nostri esperti il tema potrebbe essere affrontato in un’ottica diversa. Per esempio, piuttosto che interrogarsi sugli effetti sulla produttività, secondo Varufakis è interessante chiedersi “come l’IA ha trasformato il mercato dei capitali”.
Ci stiamo avviando verso una “nuova forma di capitale nelle mani di pochi” creata dall’IA, avverte Varufakis. “I mercati sono già stati sostituiti dal ‘Cloud capital’”. Anche il modo di fare commercio è ormai cambiato e “Alibaba o Amazon non sono più dei mercati, ma piattaforme nelle mani di poche persone”. Secondo l’economista, questa nuova forma di capitale crea “sempre più instabilità nella nostra economia”. Gli utili sono stati sostituiti con forme di rendite o di “affitti” e “i proprietari di IA hanno un enorme potere di estrarre profitto per la tecnologia dalle persone, dai lavoratori, dai capitalisti, insomma, da chiunque”. Ogni “post” che facciamo, ogni “tweet”, ogni attività di engagement online non fa che aumentare il capitale di pochi beneficiari. Il problema è che “i cambiamenti tecnologici stanno già rivoluzionando le nostre vite e non ce ne stiamo accorgendo”, conclude Varufakis.
La sfida per gli investitori
Ma sui mercati sembra tutta un’altra storia. I mercati sono euforici per l’IA, ma quest’ottimismo sarà sufficiente a farci passare a un futuro migliore, magari togliendoci di dosso il debito? “Questo è il cosidetto mainstream attuale, se ne discute a livello di banche centrali, forse perché constatiamo questo aumento di produttività negli Stati Uniti”, commenta Tentori, aggiungendo di non dubitare affatto che l’IA possa avere ripercussioni sulla generazione di produttività. Tuttavia, “ci sono delle decisioni che devono essere prese dagli esseri umani, non si possono delegare tutte le decisioni alle macchine”, aggiunge il CIO di AXA IM.
Anche qui, come per la tecnologia green, per un investitore equity non è facile capire su quali aziende puntare. Secondo Tentori, investire solo in Europa sarebbe rischioso, a meno che non ci sia un piano e qualcuno fornisca certezze su come saremo tra dieci anni.
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