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Culle vuote? Ecco come l’Italia può sfuggire alla “trappola demografica”


Sceso per la prima volta sotto quota 400mila culle l’anno, il nostro Paese sta diventando uno dei peggiori in Europa per denatalità e squilibri generazionali, oltre che di genere. Ma invertire la tendenza è ancora possibile: basta copiare l’esempio della Francia, o del Trentino Alto-Adige.

La demografia italiana continua a battere record negativi. Secondo i più recenti dati Istat, nel 2022 i nuovi nati sono scesi sotto le 400mila unità: a quota 393mila, per la precisione. E’ la prima volta dall’Unità d’Italia, guerre mondiali comprese. L’ultimo anno in cui si registrò un aumento fu il 2008. Da allora sono “scomparsi” 184mila neonati. E il tasso di fecondità delle donne italiane è il terzultimo d’Europa, con Spagna e Malta a chiudere la classifica.

 

Fonte: Eurostat, marzo 2023

 

Un Paese di anziani

A metà anni Settanta eravamo uno dei Paesi occidentali con la maggior fecondità. A fine anni Ottanta siamo diventati quello con il più basso numero medio di figli al mondo. E a metà del Ventunesimo secolo, stando allo scenario mediano Istat, l’Italia si ritroverà con una maggioranza di settantacinquenni (830mila), contro appena 500mila trentenni e 680mila cinquantenni. Saremo un Paese di anziani. Con una spesa previdenziale insostenibile a gravare sulle spalle di pochi lavoratori attivi, peraltro in continua diminuzione.

Peggio ancora: tra i giovani abbiamo saldamente in mano il record negativo europeo dei Neet, quelli che non studiano e non lavorano, oggi pari al 30% del totale nella fascia 25-34 anni. E’ la conseguenza delle fragilità del percorso di transizione scuola-lavoro, che porta a posticipare l’arrivo del primo figlio. In Italia l’età media in cui si diventa genitori è la più avanzata d’Europa.

 

Potenziali madri in diminuzione

Esiste poi un problema nel problema. La diminuzione delle nascite, iniziata negli anni Settanta, con il passare del tempo ha portato a una riduzione delle potenziali madri: il che si traduce automaticamente in un calo strutturale dei nuovi nati, a prescindere dal trend di denatalità (che comunque esiste).

Come sottolinea la stessa Istat nel suo ultimo rapporto sugli indicatori demografici, infatti, le culle vuote si devono non tanto alla rinuncia ad avere figli quanto al «progressivo invecchiamento della popolazione femminile nelle età convenzionalmente considerate riproduttive (dai 15 ai 49 anni)».

 

La condanna della “trappola demografica”

Ormai diventato uno dei peggiori Paesi in Europa per denatalità e squilibri demografici, l’Italia primeggia anche per diseguaglianze sociali, generazionali e di genere. Sta cadendo nella cosiddetta “trappola demografica”, quella in cui riuscire a invertire il declino delle nascite risulta sempre più difficile. Poche culle, infatti, significano più anziani e meno lavoratori attivi. Quindi enormi spese di welfare, che vanno finanziate con maggiori tasse o tagli di spesa, visto che il nostro Paese non può più produrre debito.

Il risultato è un circolo vizioso: i giovani fuggiranno sempre più dalla tenaglia di indebitamento pubblico e invecchiamento demografico spostandosi all’estero, mentre diventerà quasi impossibile attrarre immigrazione di qualità.

Agli Stati generali della Natalità, che si sono tenuti in maggio alla presenza del Papa, l’Italia ha annunciato di voler tornare a 500mila nuovi nati entro dieci anni. Ma è un obiettivo ragionevole? In quale direzione dovremmo muoverci per invertire il nostro declino demografico?

 

L’esempio francese

Vediamo cosa funziona all’estero. Dagli anni Settanta il Paese con i migliori tassi di fecondità europei è la Francia: uniti all’immigrazione, gli 1,84 figli per donna permettono ai transalpini di veder crescere la loro popolazione. Tale lusso si deve non solo a politiche avanzate di welfare (che spaziano dagli incentivi economici alla diffusione degli asili nido) ma anche a un diverso approccio culturale, simile a quello dei Paesi scandinavi, in cui la partecipazione delle donne al mondo del lavoro è molto forte.

Invece il tradizionale schema culturale dei Paesi mediterranei (nel quale la donna è votata alla cura della famiglia e il lavoro femminile viene percepito come un ostacolo alla natalità) oggi si dimostra perdente. Nel terzo millennio la mappa della fecondità coincide con quella dell’occupazione femminile e dei servizi di welfare. Quindi con gli spazi di autonomia delle donne.

 

In Italia poche donne al lavoro e coppie senza matrimonio o convivenza

Pur confinando con la Francia, l’Italia è invece molto debole sia sul fronte del welfare che su quello della partecipazione femminile al mondo del lavoro. Come ricorda il Censis in un capitolo di un suo web book intitolato “Il talento femminile mortificato”, siamo tra i peggiori Paesi europei per tasso di attività femminile, con poche donne al lavoro, per giunta spesso confinate in forme occupazionali fragili (part-time, tempo determinato, partita Iva).

Poi c’è un altro problema squisitamente italiano, che segnala Gianpiero Della Zuanna (docente di Demografia a Padova) su Neodemos: nell’ultimo decennio sono sempre meno i giovani che vivono in coppia. I fidanzamenti esistono, ovviamente, ma non portano a convivenza o matrimonio. Oppure questi eventi avvengono troppo tardi.

«L’età avanzata in cui le persone vanno a convivere o si sposano spinge verso l’alto la quota di persone senza figli, di cui l’Italia ha oggi il record mondiale: era del 10% per le donne nate nel 1945, del 18% per quelle nate nel 1965, del 28% (stima) per le donne italiane nate nel 1985», spiega il demografo. Di strada da fare, insomma, ce n’è davvero parecchia.

 

Trentino-Alto Adige in controtendenza

Attenzione però a non fare di tutta l’erba un fascio. La mappa della denatalità italiana è a macchia di leopardo. Accanto al crollo delle nascite in alcune regioni del Sud (un tempo regno delle culle tricolori) assistiamo al boom del Trentino-Alto Adige. Se infatti Lazio e Toscana arrancano (1,16 figli per donna) e la Sardegna sprofonda (0,95), il Trentino svetta a 1,52 in splendida solitudine. La periferica Bolzano è la provincia con la più alta fecondità d’Italia (1,65), seguita dall’altrettanto periferica Gorizia (1,45).

Ma non si pensi che la magia delle mamme di Bolzano, più prolifiche della media europea, sia difficile da copiare. «La ricetta è semplice - scrivono sulla Voce.info i demografi Alessandro Rosina e Marcantonio Calabiano - : l’attenzione verso le nuove generazioni e le politiche familiari diventano una priorità con un impegno al continuo miglioramento».

In Trentino Alto-Adige la cultura della conciliazione tra lavoro e famiglia regna anche nelle piccole imprese, spiegano i due studiosi, alle quali viene fornito supporto qualificato per sperimentare soluzioni innovative. Mentre l’offerta dei servizi per l’infanzia spicca per versatilità e diversificazione: brilla l’iniziativa privata, ma con garanzia di qualità certificata dal pubblico.

 

Come tornare a riempire le culle

«La bassa natalità non è un destino», conclude Della Zuanna. Nei Paesi europei a sviluppo avanzato le nascite sono più numerose se l’economia va bene - spiega il demografo - se gli stipendi dei giovani permettono loro una vita autonoma, se entrambi i genitori hanno un lavoro stabile. Se il welfare dedicato alle famiglie è generoso, flessibile e stabile nel tempo. Se madri e padri condividono l’impegno per la casa e per i figli, se vengono messe in atto politiche atte a favorire consistenti saldi migratori regolari positivi. Tante caselle da riempire in fretta, per un’Italia in grande ritardo.

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