Cosa vuol dire investire in un’area geografica: rischi e benefici
In che modo distribuire gli investimenti in diversi Paesi del mondo? Quali sono i vantaggi? Che cos’è il rischio valutario e come gestirlo? Leggi questa mini guida sulla diversificazione geografica.
1. Che cosa significa diversificazione geografica e quali sono i benefici?
La diversificazione geografica degli investimenti permette di ridurre i rischi, perché spesso esiste una “decorrelazione” tra i diversi Paesi. Facciamo un esempio: nel 2022 l’indice azionario britannico Ftse-100 è sceso di appena lo 0,7%, mentre il francese Cac-40 ha perso il 9,5% e l’italiano Ftse-Mib il 13,3%. Un investitore che avesse puntato solo sull’indice principale di Piazza Affari avrebbe registrato perdite maggiori di chi, al contrario, si fosse costruito un portafoglio equilibrato anche con gli indici britannico e francese. Per rendere meno vulnerabile il proprio portafoglio, insomma, è necessario “riequilibrarlo” con altri asset di differenti aree geografiche.
2. Quali sono invece i benefici dell’investimento in singoli Paesi?
Il vantaggio dell’investire in un particolare Paese è quello di approfittare della struttura economica di quella nazione. L’Italia, per esempio, ha un eccezionale tessuto manifatturiero fatto di piccole e medie imprese ma anche di “multinazionali tascabili” dalle ottime performance. La controprova è il buon andamento storico del segmento STAR di Borsa Italiana (Segmento Titoli con Alti Requisiti), nel quale vengono negoziati titoli di società con media capitalizzazione - tra i 40 milioni e il miliardo di euro - e che rispettano particolari requisiti di eccellenza a livello di trasparenza, liquidità e standard internazionali di governance. L’indice Ftse Italia STAR, che attualmente comprende 75 società, storicamente ha registrato performance migliori del paniere con le maggiori società italiane, il Ftse-Mib, ma anche di quello tedesco, il Dax.
3. Quali sono invece i rischi della diversificazione geografica?
Principalmente sono due: il rischio Paese e quello legato alle oscillazioni valutarie. Investire in un unico Paese può rivelarsi pericoloso, in particolare se si tratta di uno Stato fragile dal punto di vista economico-finanziario e instabile politicamente. E’ il caso, per esempio, dei “Tango Bond”, i titoli di Stato argentini: quando tra fine 2001 e inizio 2002 Buenos Aires dichiarò il più grande default della sua storia cessando i pagamenti di oltre 132 miliardi di dollari, milioni di risparmiatori (tra cui circa 450mila italiani) che avevano sottoscritto i titoli sudamericani rimasero con un pugno di mosche in mano. Ne seguì una pesante ristrutturazione del debito argentino e lunghi strascichi giudiziari.
Il rischio valutario (o effetto cambio) è il rischio a cui mi espongo acquistando un asset denominato in una valuta differente rispetto alla mia. Per esempio il risparmiatore italiano che investe in titoli di Stato statunitensi non sarà esposto soltanto all’oscillazione del mercato obbligazionario americano, ma dovrà anche fare i conti con le fluttuazioni dell’euro rispetto al dollaro. Lo stesso accade con gli investimenti in materie prime, il cui valore è quasi sempre espresso nella valuta statunitense. Facciamo un esempio: cosa accade se compro azioni Apple?
I titoli sono denominati in dollari, quindi di fatto al momento dell’acquisto dovrò cambiare i miei euro nella divisa statunitense. Quando poi venderò le azioni sarà necessario tener conto non solo dell’andamento di Apple a Wall Street, ma anche delle fluttuazioni del dollaro rispetto all’euro: se la moneta unica si è rafforzata rispetto al biglietto verde avrò perso soldi, se invece si è indebolita avrò guadagnato. Gli effetti del cambio possono rivelarsi molto complessi. Se per esempio investo in un Etf denominato in dollari e relativo all’azionario giapponese, dovrò scontare un doppio effetto cambio: quello tra yen e dollaro e quello tra dollaro ed euro. Questo perché le azioni giapponesi sono espresse in yen, l’Etf è denominato in dollari e la mia valuta di riferimento è l’euro.
Fonte: dati Reuters, 30 dicembre 2022
4. Conviene acquistare asset denominati in valute “deboli” di Paesi emergenti?
No, perché le valute dei Paesi emergenti tendono a deprezzarsi. Chi per esempio in passato avesse acquistato obbligazioni della Turchia denominate in lire turche, si sarebbe esposto pericolosamente alla svalutazione della divisa: cinque anni fa 100 lire turche valevano infatti 20 euro, oggi sono precipitate a circa 5 euro.
5. Come gestire il rischio valutario?
Ci sono diverse forme di copertura valutaria. Alcune vengono attuate da gestori professionali con l’utilizzo di derivati, ma esistono anche strumenti finanziari denominati in euro (come fondi o Etf) che “neutralizzano” le fluttuazioni dei cambi, anche se comportano dei costi aggiuntivi per l’investitore. Questi strumenti di solito sono riconoscibili dalla dicitura hedged, ovvero “coperto dal rischio valutario”. In conclusione, l’effetto cambio può condizionare le performance sia in modo positivo che negativo. L’importante è essere consapevoli dell’esistenza del fattore valutario, in particolare quando si diversifica il proprio portafoglio su base geografica. Il consiglio è comunque sempre quello di farsi aiutare da un consulente professionale nelle scelte di portafoglio.
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