Culle vuote, fuga di cervelli, meno immigrati: ecco la sfida demografica per l’Italia (e come vincerla)
Il calo delle nascite, l’emigrazione di giovani spesso istruiti e la diminuzione degli ingressi di stranieri hanno fatto sprofondare il nostro Paese in un’emergenza demografica che non si vedeva dai tempi delle due guerre mondiali. Ecco cosa sta succedendo e come intervenire.
Più di cento anni dopo, l’Italia è tornata - demograficamente parlando - alla sconfitta di Caporetto del 1917. E purtroppo non si tratta di una metafora, ma di statistiche ufficiali. Il processo di invecchiamento del nostro Paese non è una novità, ma l’accelerazione che lo rende pericoloso ha una data ben precisa: il 2015. Da quell’anno in poi, come ha di recente ricordato il Censis, il nostro Paese ha perso 436mila cittadini, come se l’intera città di Bologna fosse scomparsa dalla carta geografica. Un’emorragia di queste proporzioni non si verificava dal triennio 1916-18, per la doppia strage legata alla Grande Guerra e all’epidemia della mortale influenza Spagnola. Ma come è possibile che l’Italia sia tornata, demograficamente parlando, all’epoca della prima guerra mondiale pur senza essere coinvolta in un sanguinoso conflitto o colpita da un virus letale?
Sulla sfida demografica italiana pesano tre fattori: il crollo della natalità (con conseguente rapido invecchiamento della popolazione), il calo di un’immigrazione che ha iniziato a preferire altre mete rispetto alla Penisola, e la fuga all’estero di giovani spesso molto qualificati.
Il crollo delle nascite in Italia (2003-2018)
Fonte: Elaborazione Censis su dati Istat
Iniziamo con il problema numero uno: le culle vuote. Sempre nel 2015 ha fatto scalpore il fatto che i nuovi nati fossero scesi sotto la soglia psicologica del mezzo milione, ma il crollo è continuato a ritmi impressionanti anche negli anni successivi. Nel 2018 in Italia sono nati meno di 440mila bambini, esattamente la metà rispetto al 1974, ai minimi storici dall’epoca dell’Unità d’Italia, comprese le due guerre mondiali. I neonati della classe 2018 sono stati clamorosamente superati di numero pure dagli ultraottantenni. Il risultato è che secondo i dati Eurostat elaborati da Neodemos.info, il nostro Paese si ritrova ad avere i maggiori squilibri demografici della Ue tra nuovi nati e anziani, in una situazione persino peggiore di quella di una Grecia piegata da otto anni di recessione, ma anche di Portogallo e Germania, che pure si trovano a loro volta in zona pericolo.
Ormai il numero medio di figli per donna, il famoso tasso di fecondità totale, è sprofondato sotto quota 1,3, in piena “recessione demografica”: un’ovvia conseguenza del fatto che in Italia scarseggiano i giovani, in grado di trainare la crescita e finanziare il sistema di welfare, mentre abbondano gli anziani. E’ peraltro vero che il fenomeno di invecchiamento della popolazione è comune a tutta l’Europa occidentale e che rappresenta a sua volta una risorsa: secondo la Commissione europea entro il 2025 nella Ue ben 88 milioni di posti di lavoro saranno legati alla “silver economy”, aprendo per esempio nuove prospettive anche nel campo dell’edilizia per gli anziani. Ma il fenomeno va comunque tenuto sotto controllo, anche per garantire la sostenibilità del sistema previdenziale.
Il declino demografico è infatti un pericoloso serpente che si morde la coda, come dimostra il calo delle donne in età feconda (15-49 anni), scese tra il 2008 e il 2017 di ben 900mila unità. E se le donne oggi non fanno figli non è solo per una legittima scelta individuale, ma anche per l’instabilità e la precarietà economica che spinge le giovani italiane a rimandare la maternità, a volte purtroppo a tempo indeterminato.
Il problema numero due è l’immigrazione: non perché arrivano troppi immigrati, ma al contrario perché ne arrivano pochi. Sono finiti i tempi in cui le nascite di bambini stranieri nel nostro Paese compensavano il declino delle maternità delle italiane: nel 2018 i figli nati da genitori immigrati sono stati oltre 12mila meno che nel 2013, con una media di figli per donna scesa sotto la soglia di due, a 1,98. Una conseguenza della riduzione dei flussi migratori in ingresso, ma anche del fatto che le straniere arrivate da tempo in Italia stanno invecchiando e hanno comunque già raggiunto il numero di figli desiderato.
L’Italia che invecchia (1959-2039)
Fonte: Elaborazione Censis su dati Istat.
Terzo problema: la fuga dei cervelli. Nel decennio 2007-2017 hanno lasciato il nostro Paese quasi 775mila italiani sotto i quarant’anni di età. Tra il 2007 e il 2017 l’emigrazione all’estero di italiani è cresciuta del 215,6%, percentuale che sale al 258,4% per chi ha meno di quarant’anni. Nel solo 2018 hanno lasciato il nostro Paese 117mila persone, di cui 30mila laureati.
Dall’asilo alla laurea uno studente italiano costa al nostro Paese oltre 100mila euro di fondi pubblici: il fatto che appena uscito dall’università sia costretto a emigrare in Paesi dove stipendi e prospettive di carriera sono migliori è la peggiore delle sconfitte per l’Italia, incapace di trattenere i talenti che forma. Un paradosso doloroso anche perché siamo uno dei Paesi avanzati con la percentuale più bassa di laureati, pari al 19% dei 25-64enni contro il 37% medio dei Paesi Ocse.
Quanto ci costa la fuga dei cervelli? Secondo la Fondazione Leone Moressa, con i 250mila giovani tra 18 e 34 anni che tra il 2009 e il 2017 hanno lasciato l’Italia, il nostro Paese ha perso l’equivalente di 16 miliardi di euro, pari all’1% del Pil. Niente paura però: gli strumenti per intervenire non mancano. Lo dimostra l’esperienza di altri Paesi europei dove il tasso di fecondità, in netta ripresa, ha toccato i massimi degli ultimi vent’anni: la Repubblica Ceca, l’Ungheria, la Polonia, la Slovacchia e soprattutto la Germania, tornata alla natalità del 1973. Come mostra uno studio effettuato da Neodemos.info su dati Eurostat, decisivi sono stati incentivi concreti e di lungo periodo per sostenere le famiglie e la riconciliazione tra lavoro e tempo libero.
Nella stessa Italia ci sono zone che vanno decisamente in controtendenza, come la provincia di Bolzano, dove secondo i dati Istat il numero medio di figli per donna è aumentato, superando quota 1,7, anziché diminuire come nel resto del Paese. Merito di una grande offerta di servizi per l’infanzia, diffusa in tutto il Trentino-Alto Adige, e di radicate politiche di conciliazione tra lavoro e famiglia. Le soluzioni per ridare fiato alla natalità in Italia quindi non mancano. Basta avere la volontà di adottarle.
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