Stabilità del potere d’acquisto: mito e realtà
Sul sito del Consiglio dei Governatori della Federal Reserve si legge che “una funzione cruciale della valuta è la riserva del valore che può essere risparmiato e usato in futuro senza una perdita significativa di potere d’acquisto” (traduz. da Bertaut et al., 2021, The International Role of the U.S. Dollar, FEDS Notes, Board of Governors of the Federal Reserve System). Sarà certamente così, dato che la finanza mondiale si basa sulla stabilità della valuta e il dollaro statunitense è l’architrave del sistema valutario.
Il grande Richard Feynman ci ha spesso ricordato che se la “religione è la cultura del credo, la scienza è la cultura del dubbio”. Non mi porrei mai allo stesso livello – peraltro inarrivabile – di Feynman, ma almeno lasciatemi dubitare, da scienziato dilettante quale sono. Il sito del Bureau of Labour Statistics (BLS) è una preziosa fonte di informazioni, se non altro per tutti i dati che regolarmente pubblicano sull’indice dei prezzi al consumo statunitensi. Nascosto nei meandri di questo sito si trova anche un “CPI Inflation Calculator”, una applicazione che ci permette di calcolare la variazione del potere d’acquisto del consumatore americano.
Per esempio 1000 dollari nel lontano febbraio 2000 avevano lo stesso potere di acquisto di 1523 dollari nel febbraio di venti anni dopo. Parliamo di una perdita di potere d’acquisto del 2.6% annuo circa, abbastanza contenuta da non deviare troppo da quello che in gergo da banchiere centrale si definisce “stabilità dei prezzi”. Durante gli ultimi 24 mesi, il potere d’acquisto della famiglia statunitense è purtroppo diminuito più rapidamente, molto più rapidamente: 1000 dollari a febbraio 2021 avevano lo stesso potere d’acquisto di 1143 dollari a febbraio 2023. Ciò equivale a una svalutazione del 7.2% annuo, chiaramente ben oltre qualsiasi definizione di “stabilità dei prezzi”.
Esorto il lettore a tratte le sue personali conclusioni sul tema, peraltro squisitamente controverso in un mondo dominato dal pensiero economico mainstream. Per quanto mi riguarda, vorrei condividere una riflessione. Sento spesso parlare di “effetto virtuoso” dell’inflazione sulla sostenibilità del debito. In effetti il quoziente debito/PIL si comprime in un regime di crescita nominale più alta del tasso di interesse sul debito (la famosa formula “i-g”). La crescita nominale è la somma di crescita reale e inflazione, quindi anche con crescita reale a zero, l’alta inflazione può aiutare a diminuire il livello di debito sul PIL. Se però scende il rapporto debito/PIL, scende con l’inflazione anche il potere d’acquisto delle famiglie, come abbiamo visto dalla calcolatrice del BLS. Siamo quindi di fronte a un “deleveraging” del sistema economico, dove la popolazione si impoverisce mentre si stabilizzano le metriche di rischio del debito, sia esso pubblico che privato.
In conclusione, questo problema può assumere un carattere sociale nella misura in cui la perdita di potere d’acquisto non venga compensata dall’aumento dei salari (i.e. il cosiddetto salario reale è negativo). Ma non solo. L’impatto sociale dell’inflazione si ha anche quando l’aumento dei prezzi dei i beni primari (in particolare, i beni alimentari) riduce sproporzionatamente il reddito disponibile degli strati più deboli della società. Storicamente, il connubio tra fragilità del potere d’acquisto e rapido aumento della disuguaglianza non ha mai portato a stabilità economica, politica e sociale. Sta quindi alle autorità preposte al controllo della stabilità dei prezzi, le banche centrali, a ritrovare quell’equilibrio che sembra essersi perso nelle riaperture post-Covid, nei colli di bottiglia delle supply chain, nel re-shoring, nei rapidi cambiamenti demografici e nelle nuove abitudini lavorative.
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