E se poi la recessione non ci fosse?
Il 2022 è l’annus horribilis per gli asset finanziari. Basti guardare all’indice MSCI World che chiudeva il primo semestre a -20.2%. Purtroppo, non è solo un anno pessimo per i cosiddetti risky assets, ma anche per gli asset più sicuri come i Treasury (-9.1% da fine dicembre a fine giugno). La forte correlazione tra asset finanziari ci riporta indietro negli anni settanta, periodo di difficile gestione degli investimenti, evocando inoltre lo spettro della stagflazione. Il sentiment dei grandi investitori è ritornato sui minimi della Grande Crisi Finanziaria e lo scenario di recessione dell’economia statunitense non viene più visto come un puro “rischio di coda” dagli economisti di Wall Street.
C’è però qualcosa che non quadra in questo racconto: l’economia USA non è debole. Certo, la crescita sarà più lenta che nel 2021 (+5.7%), ma siamo proprio così sicuri che sarà talmente lenta da essere catalogata dal National Bureau of Economic Research come una recessione? Vorrei analizzare alcuni punti che mi sembrano essenziali per posizionare i nostri portafogli nei restanti mesi dell’anno:
- I mercati finanziari parrebbero ormai avere “internalizzato” il rischio di una inflazione più alta delle attese per un periodo temporale più lungo delle attese. Le scommesse si spostano quindi sulla crescita, dove peraltro già aleggia un forte pessimismo. Nel corso del 2022, il consenso degli economisti ha rivisto il PIL americano al ribasso da +3.9% a 2.1%. In un sondaggio condotto da Bank of America, quasi il 60% degli intervistati vedono la recessione come lo scenario più probabile.
- Il mercato del lavoro è però estremamente forte, come segnala l’analisi mensile dei vari indicatori sull’occupazione e sui salari della Fed di Atlanta. Il PIL negativo nel primo trimestre del 2022 stride peraltro con gli 1.6 milioni di nuovi posti di lavori creati e con un aumento dei salari del 5.5%. Non sono solo io a pormi queste domande, ma anche James Bullard (Presidente della Fed di St. Louis) e Chris Waller (membro del board della Fed) propongono una lettura simile.
- La rapida compressione dei multipli – da 32x a 20x sull’indice S&P500 – è in larga parte frutto di una correzione dei prezzi, ma non di una recessione degli utili, che rimangono solidi anche nel secondo trimestre dell’anno in corso. La resilienza dei margini di profitto e degli utili stempera un po' quella narrazione che prevedeva un collasso del business a fronte di una inflazione molto alta e di rischi geopolitici che andassero a impattare sui costi di produzione (penso alle famigerate “strozzature logistiche”).
- La Fed dovrebbe portare i tassi di interesse a un livello neutrale entro la fine dell’estate. Ovviamente, si sprecano le discussioni e le analisi sul concetto di “tasso neutrale”, ma stando alle dichiarazione di alcuni presidenti della Fed questo potrebbe attestarsi tra 2.5% e 3%. Una stabilizzazione delle pressioni sui prezzi potrebbe poi innescare una nuova fase per Washington, caratterizzata da un approccio più graduale e mirato, diciamo di “fine tuning”. Con ogni probabilità questa nuova fase verrebbe vista con favore dagli investitori: Da un lato confermerebbe che la Fed ha l’inflazione sotto controllo, dall’altro che i tassi di interesse non verranno portati a livelli insostenibili per le aziende.
Rimangono però anche diverse questioni inevase. Non è ancora chiaro quanto l’aumento dei tassi di interesse stia incidendo sui costi di rifinanziamento delle aziende, anche se per fortuna le scadenze sugli indici investment grade e high yield sono ben distribuiti su diverse annate. Questa domanda si sposa anche con la resilienza di modelli di business che funzionavano molto bene in un regime di tassi zero, ma che potrebbero non essere calibrati su un regime di tassi di interesse più alti. C’è anche incertezza sul livello massimo di inflazione tollerabile da aziende e famiglie. Se è vero che per ora l’economia sembra ancora funzionare abbastanza bene, nonostante le ripetute sorprese sul CPI (ultimo dato: 9.1%), è anche vero che la maggior parte degli studi – inclusa l’ultima ricerca della Fed di New York – suggeriscono un livello di inflazione alta (4.5%-5% al massimo), ma non troppo alta come benefico per utili e profitti aziendali.
In sintesi, i mercati finanziari sembrano ormai più preoccupati per la crescita che per l’inflazione. Noi condividiamo questa lettura, ma dalla nostra analisi non risulta un evidente rischio di recessione. Lo scenario più probabile per i prossimi trimestri prevede una crescita del PIL statunitense decisamente meno spumeggiante che nel 2021, con un tasso di inflazione elevato, ma in diminuzione. Se così fosse, il mercato azionario potrebbe attrarre l’interesse degli investitori con rendimenti attesi in netta controtendenza rispetto alla prima metà dell’anno.
Forse, e ripeto “forse”, più che di annus horribilis dovremmo parlare di dimidium annum…
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